Ricerca, Tutela e Valorizzazione dei Beni Culturali dagli anni 60
 

LA RACCOLTA DELLE OLIVE CON GLI ANTICHI METODI TRADIZIONALI NEGLI ANNI ‘50

Conosciamo molto bene la presenza di ALBERI di OLIVE nel nostro Territorio sin dal MEDIOEVO e le antiche e tradizionali tecniche di raccolta delle belle e lucide DRUPE dalla “TAVOLOZZA” cromatica di brillanti COLORI dovuti ad una ricca serie di pigmenti COLORATI, presenti a partire dall’esoderma per diffondersi, con altri elementi cellulari, soprattutto i VACUOLI, gonfi fino a scoppiare, saturi di ricche goccioline di OLIO nel mesoderma. Colori che vanno dal VERDE-GIALLO, VINACCIA-ROSSATRO: la gamma cromatica è veramente un fiume in piena; e pensare che proprio il colore VERDE tipico dell’OLIVA caratterizza un gruppo di ROCCE magmatiche effusive ed intrusive, per la presenza di un minerale silicatico denominato OLIVINA proprio per la loro caratteristica COLORAZIONE VERDE-OLIVA chiaro e quella VERDE-PISTACCHIO per la presenza diffusa di minerali quali Silicato di Magnesio o Silicato di Ferro.

Ma torniamo ai metodi tradizionali di RACCOLTA per la quale si usavano espansi TELONI, lunghe SCALE di legno e SACCHI di SPAGO e CANAPA o di TELA, ma soprattutto tanto duro LAVORO.

I rimandi della mia infanzia sono molteplici e soprattutto quelli legati al mondo AGRICOLO: sono ricordi indelebili. Ricordo molto bene, da bambino, che il mezzo di trasporto, negli anni ’50, era il CARRETTO tradizionale sul quale si caricavano e si trasportavano i vari materiali,  gli attrezzi e le OLIVE insaccate. I BRACCIANTI AGRICOLI, alcuni, veramente pochissimi, arrivavano nell’oliveto con le biciclette, altri, la gran parte, a piedi e questo sia per l’andata che per il ritorno.

Ma voglio iniziare con il ricordo d’infanzia degli anni ’50. I nostri oliveti , a coltivazione promiscua (olivo con mandorli o vigneto) erano posti nelle contrade “ACQUAMELA”, “MEZZANA LA TERRA” e “SAN MARCO”, tutti a pochissimi chilometri dalla città.

Con l’approssimarsi del periodo della RACCOLTA delle OLIVE si metteva in moto una serie di situazioni che tendevano alla preparazione dell’EVENTO. Bisognava controllare l’efficienza delle SCALE di legno, degli ampi e pesanti TELONI realizzati con tela di sacco e canapa,  se nel caso bisognava effettuare delle cuciture o rattoppi sugli stessi, la tenuta dei SACCHI di TELA o semplicemente di  SACCHI di SPAGO e CANAPA, più pesanti e rigidi.  Anche se questa “revisione” ad onor del vero veniva già effettuata in estate sia per i teloni che per i sacchi in estate. Andavano lavati e revisionati in tempo. Andava verificata la quantità dello SPAGO con una scorta necessaria per l’occorrenza.

Arrivato il giorno di inizio, già nella notte precedente, ricordo che dormivo pochissimo, l’AVVENTURA della RACCOLTA, così mi appariva, mi creava una forte emozione e vivacità. La mattina ero su di giri, sentivo il rumore stridente dei CERCHIONI, “i c(e)r(e)kiun(e)” di ferro delle ruote del CARRETTO,u traj(e)n(e)” e il suono cupo dei ferri degli zoccoli del cavallo che battevano in modo assordante sul lastricato della pavimentazione stradale. L’avvicinarsi faceva aumentare sempre di più il rumore, per poi di colpo fermarsi davanti al nostro garage di Via S. Martino 45, difronte al  portoncino di ingresso al nostro palazzo di abitazione. I miei genitori erano già svegli. Uscivo fuori al balcone e verificavo dietro la ringhiera di ferro, ero alto da non superare la stessa ringhiera, chi fosse il CARRETTIERE, “u trajnir(e)”: quasi sempre era il fratello grande di mio nonno Matteo, zio Salvatore Russo; a volte i suoi cugini zio Vincenzo Russo o zio Antonio Russo, cugini di mia madre che possedevano il carretto e il cavallo. L’ora mattutina erano le solite 5:00 circa. Intanto erano arrivati due braccianti su una bicicletta e così si dava inizio all’operazione di carico del carretto: venivano caricate le scale, i teloni, i sacchi ed altro occorrente per la raccolta. Una capiente borsa di cuoio nera conteneva un canovaccio pieno di fette di pane, fatto in casa da mia madre Lucia e portato al forno privato di Antonio (non ricordo il cognome) ubicato in Via S. Francesco al n. 23, che mia madre stessa aveva  preparato la sera precedente; inoltre vi era anche un coltello ricordo bene, del tipo pieghevole con manico di legno, che conserviamo.

Sul carretto saliva anche uno dei braccianti. Mio padre Michele con solerzia metteva in moto la GILERA 125, mio fratello Antonio, seduto sul sellino posteriore reggeva la borsa di cuoio ed io più piccolo mi posizionavo sulla parte estrema della sella grande, dietro mio padre, che stringevo in vita ad evitare gli scossoni durante il viaggio. Era tutto pronto per partire: la LANTERNA a PETROLIO era già accesa sotto il carretto ed era l’unico punto e segnale luminoso per chi stava dietro. Mio padre precedeva il carretto. Vedevamo altri carretti e molti braccianti a piedi o in sella alle biciclette avviarsi sul campo di lavoro lasciare la città, sfruttando la esigua illuminazione stradale ed affrontare il buio più profondo per arrivare nelle diverse contrade.

Si arrivava finalmente sul posto: il primo giorno di raccolto iniziavamo dall’oliveto posto in contrada “ACQUAMELA” sulla Strada per Candela, la STATALE PROVINCIALE 95, a circa 4 Km. Però nel momento della raccolta, si imboccava un TRATTURO che si inoltrava sempre di più nell’interno, che originava a quasi 2 Km. a distanza dalla città, imboccandolo sulla sinistra: un tratturo in terra battuta,  molto stretto, con su di un lato quello sinistro un lunghissimo MURO a SECCO realizzato in SCAGLIE di PIETRA CROSTA CARBONATICA, e si presentava perfetto ed in ottime condizioni di stabilità ed integrità’, strutture murarie che andrebbero tutelate e censite, denominato il “TRATTURO DELLA SPAGNA”, attraversava la contrada “LA SPAGNA” e terminava in un’ampia Contrada chiamata ”I DEMONI” uscendo a diversi chilometri più avanti al nostro oliveto sulla medesima Statale. Si arrivava lentamente al “capo di sopra” del nostro oliveto, dove a confine, tra il tratturo e l’inizio del nostro terreno vi era un albero selvatico di pere, “u p(e)razz(e)”. Tre filari di piante di olivo alternantesi con altre tre di mandorlo, percorrevano tutta la fascia, molto scoscesa, fino ad affacciarsi, sulla Strada per Candela.

Si era partiti la mattina molto presto, al buio. Arrivati sul campo, nell’OLIVETO che era ancora buio si raccoglievano delle fascine di legna, materiale ligneo secco di reimpiego accatastato in una ampia GROTTA, presente da sempre, scavata nel banco crustaceo nella parte più alta dove venivano di solito conservate le fascine e grossi pezzi di legna. Questa operazione veniva effettuata da un operaio della SQUADRA, “la skuadr(e)”, che era composta da CINQUE persone, a volte SEI, dipendeva dalla quantità del prodotto. Questi  erano i braccianti agricoli che raccoglievano le olive dalle piante, a questi si aggiungevano altri  che, invece, avevano il compito più pesante di raccogliere le olive da casco, che venivano insaccate a parte dalle olive buone e dovevano anticipare l’intera squadra. Tra questi raccoglitori delle olive da casco vi erano anche ragazzi, generalmente erano i figli degli stessi braccianti. La squadra anticipava a recarsi in campagna per raccogliere la legna e l’accensione del il fuoco. Quel calore, quelle fiamme che si innalzavano ed espandevano nel buio fiamme e fumo nel freddo pungente, producevano dei bagliori fantasmagorici. Si creava un momento alto dello stare insieme nel tendere le mani a conquistare il caldo, stando in circolo davanti alla legna che bruciava velocemente. Il freddo era rigido e pungente già dalla fine di ottobre fino a febbraio, con forti gelate ed anche la neve. La legna veniva rinvigorita lentamente, all’insegna del risparmio. Si procedeva ad un rituale e cioè la brace veniva un po’ allontanata dalle fiamme e dopo aver raccolto un po’ di olive venivano messe nella BRACE ormai esausta. Con gran rispetto venivano poste le OLIVE che in poco tempo passavano subito alla cottura. Intanto si preparavano delle FETTE di PANE che venivano poste a loro volta in una parte della BRACE, a abbrustolire, ancora caldo, profumato, prelevate le olive che venivano allontanate dalla brace con la punta dello scarpone, accolte nel palmo della mano venivano spolverate a soffio e poi sfregate sul pane abbrustolito, “u pp(e)n(e) arr(e)st(e)ut(e)”, molto caldo. Anche noi con i braccianti mangiavamo questo cibo profumato e saporito. Era veramente un momento nevralgico, toccante, il silenzio si faceva prepotente e  tutti lo rispettavamo, l’unico rumore era il crepitio della legna che bruciando liberava l’umidità accumulata e se era verde non ancora secca era la LINFA che scoppiettava. Veramente un momento che ti portava alla riflessione. Non so cosa in quei momenti i nostri cinque BRACCIANTI e i GIOVANI RAGAZZI a cosa erano rivolti i loro pensieri. Probabilmente alla enorme FATICA da affrontare nella giornata rigida per il freddo, la famiglia …  Un’antichissima tradizione che si ripeteva da SECOLI.

Ai primi bagliori e sprazzi di luce bisognava iniziare. Il caposquadra, “u k(e)p(e)skuadr(e)” sollecitava ad iniziare. I primi erano i ragazzi che muniti di barattoli di latta o di stagno con un rudimentale manico di filo di ferro li riempivano di brace potendo di tanto in tanto riscaldare le dita infreddolite, si perché molto spesso vi era ghiaccio, la “ki(e)tr(e)it(e)”, a terra e comunque le olive cadute “u nuzz(e)l(e)” prima della raccolta venivano recuperate  tutte sotto l’occhio vigile del caposquadra che non si faceva scrupolo di sollecitare e soprattutto rimproverare ed inveire contro i raccoglitori; per i ragazzi era una continua triplice sofferenza: la FATICA, il FREDDO e i RIMPROVERI. Tra i ragazzi che erano molto più grandi di me e mio fratello Antonio, che eravamo bambini, anche noi dovevamo raccogliere le olive, anche se per pochissimo tempo, seguiti da mio padre. Dovevamo capire sin da piccoli il duro lavoro della campagna, lavorare e saper stare con gli altri; erano per noi due alcune delle tante prove di vita.

La raccolta veniva effettuata lentamente facendo scivolare le due MANI e le DITA senza creare attrito traumatizzante con le OLIVE per non rovinarle o peggio ancora lacerarle. Praticamente era la tradizionale raccolta secondo la pratica della “MUNGITURA”. I braccianti salivano sulle lunghe scale fino alla vetta degli alberi, a volte passavano anche sui grossi rami ponendosi a cavalcioni su di essi.

Il prodotto, che lentamente cadeva come una pioggia benefica e ristoratrice, producendo un rumore CUPO e continuo si accumulava in ogni dove sui due ampi TELONIi rrak(e)n(e)”, terminata la raccolta della singola pianta, con un’azione di forza e di intesa reciproca scandita ad alta voce i teloni venivano, come le RETI dei pescatori tirati a cerchio stringendoli e facendo in modo di accumulare le VARIOPINTE DRUPE dal PUNGENTE ODORE DI OLIO verso il centro. La fase successiva vedeva all’opera uno o due braccianti con il SACCO aperto tenendo l’orlo ben aperto sia a destra che a sinistra, quindi gli altri componenti della SQUADRA issavano il TELONE con enorme sforzo fisico per versare il prodotto nel SACCO. Uno dei braccianti legava l’imboccatura del sacco usando una tecnica particolare facendolo dondolare a destra e a sinistra per far ammassare bene il prodotto, tenendo le due estremità strette nel pugno delle due mani, poi iniziava a rapprendere l’orlo, arricciandolo e pressandolo, così il bordo del sacco dopo averlo stretto in un pugno seguiva la legatura con lo spago ed anche per questa fase si richiedeva una tecnica molto particolare. L’operaio stringeva tra i denti lo spago durante la precedente operazione, dopo di che con una mano aveva in pugno tutta l’imboccatura del sacco e faceva seguite un giro di spago con l’altra mano che aveva fatto sfilare dai denti, effettuava un solo giro, stringendo forte, poi con un secondo giro molto più sostenuto legava definitivamente l’imboccatura, ma senza nodi. Non bisognava fare legature con i nodi perché una volta nel posto di vendita del prodotto o al frantoio bastava tirare con un po’ di vigore lo spago che l’imboccatura del sacco era libera per far scorrere le olive.

I sacchi venivano messi in piedi nell’appezzamento. Il CARRETTO sostava sul tratturo, sempre legato al cavallo e con una serie di manovre veniva posizionato ancora vuoto pronto per il ritorno. Si evitava di entrare nel podere per via del terreno bagnato con il pericolo di “INFOSSARE” il mezzo e creare un forte disagio di deambulazione al cavallo. Tutto si svolgeva sotto l’occhio attento del CARRETTIERE che vigilava sui SACCHI, “i sakk(e)”pieni di drupe profumate di olio, ad evitare che persone estranee potessero avvicinarsi e appropriarsi delle olive insaccate. Il cavallo in sosta veniva “governato” con la “sakkètt(e)” riempita di biada e fieno; non mancava il SECCHIO di zinco che era quasi sempre un po’ ammaccato, posto sotto il carretto che poteva essere riempito d’acqua al momento opportuno per l’animale. Di tanto in tanto e man mano che la squadra si inoltrava nell’oliveto bisognava caricare i sacchi. E a questo punto entrava in azione preliminarmente il carrettiere che sganciava il cosìddetto  “u ciucc(e)”, un palo di legno a sezione cilindrica terminante con uno stretto anello di ferro, legato sotto il carretto che veniva posto verticalmente e che aveva la funzione di tenere in equilibrio il carretto stesso nel momento in cui si incominciava a caricarlo. Ed allora tre braccianti si staccavano dalla squadra, si avvicinavano ai sacchi, due, posizionatisi ai due lati con le mani unite tra di loro facevano coricare il sacco sulle loro braccia e con uno scatto sincrono lo issavano sulla spalla del terzo che con enorme sforzo si avviava verso il carretto in sosta, veniva raggiunto dagli altri due e vicino al carretto lo trasferivano sopra dove il carrettiere lo sistemava sul pianale del carretto, partendo sempre dalla parte anteriore. Posti i primi due, uno a destra l’altro a sinistra, per poi procedere, con gli altri due sacchi posti sopra di traverso. Così si procedeva a collocarli sul carretto e potevano essere affilati su ben quattro righe al massimo. Tutto dipendeva dalla forza fisica e resistenza allo sforzo del CAVALLO che riusciva a tirare e di questo il carrettiere era ben a conoscenza e decideva lui quale doveva essere la massima quantità sul carretto. La quantità massima che un carretto, in generale, riferito ai prodotti della terra abbastanza pesanti aveva una portata massima di circa 14 ql. Nel caso delle olive , generalmente era di 10 ql. Il sacco pieno di olive poteva oscillare, come peso, dai Kg. 70-90.

Una squadra formata da cinque braccianti agricoli potevano raccogliere nelle sei ore di lavoro circa ql.10-11, con una media di ql. 2.50 cadauno. Sul carretto la prima fila di sacchi potevano contenere circa ql. 3.20 di olive, lo stesso nelle altre due file sovrapposte, quindi il carico completo arrivava circa ql. 10. La paga era di L. 600 per i ragazzi di L. 300.

Dopo la lunga giornata i braccianti ripiegavano bene i TELONI, i SACCHI vuoti, riannodavano il FASCIO degli SPAGHI avanzati, “u sp(e)gh(e)”, le SCALE, “i sk(e)l(e)”, tutto veniva ricollocato sul carretto . L’accortezza del carrettiere era, tra l’altro, quella di porre di traverso tra la sommità delle due sponde del carretto, “i bbarrakk(e)in(e)”, la STRETTORA di legno “la str(e)ttor(e)” che aveva la funzione di tenere le due sponde strette tra di loro per non far muovere i sacchi e creare dei spostamenti dei pesi durante il percorso. A questo punto mi inserisco in un profondo ricordo. I sogni, le fantasie, le emozioni erano prepotenti sin da piccolo volevo provare una ebrezza particolare. Mi facevo aiutare dal carrettiere a salire sulla STAFFA di FERRO, poi sul primo filare di sacchi e quindi a seguire, sempre più in alto, sempre più in alto, arrivare in vetta e sedermi cavalcioni sull’ultimo sacco di olive. Vedere dall’alto con gli occhi e la fantasia da bambino era tutt’altra cosa. Iniziava il lento movimento del carretto che incominciava con un leggerissimo dondolio. Ondeggiava e sobbalzava su qualche crusta che si trovava accidentalmente sul suo percorso nei due SOLCHI del TRATTURO. Vedevo ed osservavo attentamente il ritmato movimento sinuoso del CAVALLO, a partire dalla coda fino ad arrivare alla testa che risultava l’unica parte anatomica molto libera, autonoma nei movimenti rispetto alle altri parti. Capivo la fatica che in quel momento l’equino affrontava nel trasportare un così enorme peso. Il carrettiere che con suoni vocalizzi incitava il cavallo a seguire gli ordini. Usava la frusta ma con molta attenzione, quasi l’accarezzava senza arrecare danni e traumi. Terminato il percorso tratturale veniva a portarsi sulla Strada principale e a questo punto fermava il mezzo trasportatore, il carrettiere mi prendeva in braccio e lentamente sgattaiolavo dal carretto sulla moto di mio padre Michele, dove era già in sella mio fratello Antonio, che aveva seguito il percorso.

Il carretto carico, del prodotto della terra, si dirigeva verso la ditta acquirente per vendere il contenuto. Fermato il carretto e sceso dalla moto mio padre, incaricava mio fratello Antonio di vigilare sui sacchi in sosta sul carretto e soprattutto nel trasporto dal mezzo sino nel magazzino. Bisognava porre la massima attenzione e vigilanza sulla pesa che veniva effettuata con la BASCULA, “la paskull(e)”, non sempre rigorosamente precisa. Purtroppo si poteva facilmente manomettere con un piccolo spostamento i cosìddetti “COLTELLI”, “i kur(e)tidd(e)” sottostanti il piano orizzontale della bilancia così facendo si perdevano chili di prodotto a vantaggio del commerciante. E a questo punto ricordo molto bene un incarico di fiducia che mio padre mi dava, mettendomi alla prova sin da bambino, e cioè mi invitava a vigilare attentamente sui vari movimenti effettuati dal commerciante sulla BASCULA, sui movimenti dei pesi, sull’asta con le tacche dove i due terminali dovevano combaciare perfettamente. Aggiungo che mio padre Michele era Vigile Urbano, conosceva molto bene i vari commercianti di prodotti agricoli e soprattutto molte volte veniva incaricato, dal Comando dei VV.UU.,  affiancato da un collega, di verificare i vari tipi di bilance e pesi sulle eventuali manomissione operate dai venditori al dettaglio al  Mercato e dai  Commercianti del settore agricolo. Potevano gli stessi aver rimosso la ZECCATURA o addirittura usavano dei PESI FALSI, oltre che operazioni di frodo sulle bilance stesse.  Ero vigilissimo e non mi muovevo o lasciarmi prendere da nessuna distrazione ero concentratissimo. Mio padre chiedeva al commerciante, prima di posizionare i sacchi con le olive sul piano della bascula, di verificare la perfetta posizioni dei “coltelli” sia per quelli posti sotto la piastra , sia gli altri al marchingegno sottostante in quanto dovevano combaciare perfettamente. Fino alla fine la giornata era stata stressante per tutti.

Tradizione e Ricordi un binomio inscindibile come Cultura e Impegno senza soluzione di continuità’.

Aggiungo che tutti i materiali quali: TELONI, SACCHI e SCALE, risalenti agli anni ’40, acquistati da mio nonno MATTEO RUSSO e da mio padre MICHELE, sono in dotazione al MUSEO ETNOGRAFICO CERIGNOLANO (1979).

Cerignola, 8 dicembre 2018                          Matteo Stuppiello

Cerignola – Contrada “San Marco” – Oliveto di proprietà di Michele Stuppiello – Il “corpus” fotografico di Matteo Stuppiello riprendono le diverse fasi della raccolta delle olive il 13 novembre 1979.

Voglio esprimere un doveroso grazie ai dieci braccianti lavoratori ricordandoli con affetto e profonda gratitudine. Inoltre un grazie immenso per mio padre Michele, insegnate di vita ed educatore ripreso dalla mia macchina fotografica nelle foto n°22 e n.°33.

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